- raccontato da Di Porto Giuseppe | 1923
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Provincia di Roma - Per la memoria | 26/08/2011
Mentre Giuseppe correva si accorse che accanto a lui c’era un altro deportato, stessa divisa. Si dichiarò jugoslavo. Alla domanda se capisse l’italiano rispose che capiva tutte le lingue. Giuseppe non ci ha fatto caso perché nel campo c’era gente che parlava quattro lingue. Certo la stranezza era che il deportato non aveva il viso tirato. E poi non aveva mai fame, mai sete, mai sonno. La notte era di luna piena, la neve rifletteva la luna. Sotto l’albero su cui si erano rifugiati arrivarono due tedeschi con i cani addestrati a riconoscere i deportati ma i cani non li hanno fiutati. La mattina dopo si rimisero in cammino e dopo tre giorni arrivarono ad una casa di contadini. Lo iugoslavo disse a Giuseppe che sarebbe andato lui a parlare: tornò con un pezzo di pane e riposarono nel pagliaio. Anzi riposò solo Giuseppe che ogni tanto si svegliava e vedeva il compagno sempre sveglio. Il giorno dopo arrivarono al comando russo e poi raggiunsero il campo dei deportati liberati. Giuseppe perse di vita il compagno jugoslavo, rimase con i russi altri quattro mesi. poi riuscì a partire e tornare a Roma. Del suo strano compagno di viaggio Giuseppe non ha saputo più nulla, non sapeva il nome e non sapeva il numero. E in fondo, appena tornato a Roma non ha voluto ricordare nulla. Rimane un mistero. Sa solo, dal triangolo gallo, che era un ebreo deportato.
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